Una cosa divertente che non farò mai più*
Ieri, sabato pomeriggio, un pomeriggio freddo e piovoso, non avevo voglia di uscire, né di telefonare, né di fare praticamente nulla, così avevo deciso di dedicarmi un po’ a me stessa.
Non avendo avuto il tempo di andare dall’estetista, e ricordatami di un recente acquisto, mi sono detta: quasi quasi faccio da sola.
Il recente acquisto, su consiglio di un paio di amiche che l’avevano provato e si erano trovate bene, è di un sistema di ceretta che si scioglie con l’acqua calda e si stende con facilità grazie ad un roll on.
Sembrava facile anche a me.
Così mi sono cimentata.
Ho preso un pentolino, ci ho messo dell’acqua e l’ho posizionato sul fornello, con dentro la confezione di cera destinata a sciogliersi.
Già il fatto che il procedimento era meno veloce e facile di quanto previsto avrebbe dovuto mettermi in preallarme e farmi desistere o almeno riflettere sull’opportunità delle mia azioni, in fondo facevo ancora in tempo a rimettermi a letto, ma l’ottimismo ancora mi sorreggeva.
Mi ero preventivamente organizzata il bagno con tutte le strisce tagliate a misura, tutti gli accessori di cui potevo avere bisogno, e, dopo il parecchio tempo che ci è voluto a fare liquefare la ceretta mi sono avviata pensando: vincerò!
Lo strappo si è rivelato essere più difficile del solito e la quantità di peli estirpati mi sembrava per lo meno pari a alla quantità di quelli rimasti tracotanti al loro posto.
La cera sciolta non faceva altro che solidificarsi nuovamente con una caparbia raramente riscontrata in una creatura tanto inerte, per cui, ogni paio di strisce mi toccava correre al pentolino lasciato in cucina e ricominciare ad aspettare il miracolo della liquefazione.
Forse avrei dovuto pregare incessantemente come fanno i fedeli per il miracolo di S. Gennaro.
Giunta poi, al termine delle operazioni, la cera, gia classificata come caparbia si è rivelata essere una creatura vieppiù avventurosa ed indomabile perfino.
L’ho infatti ritrovata praticamente ovunque: sulle maniche della mia felpa, sul bordo del lavandino, a terra, su due tappetini di cui uno davvero lontanissimo dal teatro delle operazioni, su una parete, in cucina sul fornello e con orrore mi domando dove la ritroverò nei prossimi giorni!.
In particolar modo sulle mie gambe ce n’era una quantità stupefacente, soprattutto perché invisibile agli occhi, ma appiccicosissima al tatto.
Palesava il suo cattivo carattere non mostrando nessuna accondiscendenza ad andare via.
Ho provato con alcool, acqua e sapone ed infine olio!
Il mio pensiero alla fine di tutto, e dopo avere ripulito tutto, ed essermi fatta una doccia riparatrice è stato: benedetti i soldi che do alla mia estetista!
Il titolo non è mio ma l’ho preso in prestito da un divertente saggio di David Foster Wallace, che, se mai dovesse venire a conoscenza di questo mio misfatto, spero, mi scuserà!
bartleby, hai raccontato proprio la mia stessa esperienza di due anni fa, me lo avessi detto, che avevi questa balzana idea, ti avrei consigliata di spendere meglio il tuo tempo e di baciare la tua estetista in fronte. baci pelosetta mia!
skappa
E bravo il nostro aspirante scrittore..
Crilice
Gentile Dottor Bartleby,
Da diversi anni seguo assiduamente la Sua rubrica. Nel complimentarmi per la lucidità delle Sue analisi e la puntualità delle Sue argomentazioni, desidero ricordare brevemente, nel cinquantenario della sua tragica dipartita, un personaggio che certamente Lei avrà in massima stima e riguardo: il Cavalier Mirko Gustavo Giustoppi Mazzoleni, Conte di Ghemme, industriale dell’aceto.
Uomo di rara statura morale e di grande sensibilità civile, instancabile fustigatore del malcostume di un’epoca, egli fu precursore di quel liberalismo moderato che tanto avrebbe plasmato l’industria e la società italiana nei decenni a venire.
Epperò. Pochi, tra i contemporanei, intuirono appieno la portata epocale delle sue tesi. Fanno eccezione, tra gli altri, il Salvemini e il Colajanni, che anche negli anni del declino ebbero sempre parole di stima e comprensione per il Conte di Ghemme.
E cionondimeno neppure oggi, in quest’Italia martoriata dal malaffare, sempre poco incline a riconoscere il giusto merito ai suoi figli più illustri, vi è consapevolezza della grandezza e attualità della sua lezione.
Dai circoli accademici della sua amata Lodi, ai salotti della nobiltà industriale milanese, fino alle aule dell’ateneo ambrosiano, dove memorabili, per chi come me ebbe la fortuna di assistervi, furono le sue “lectio magistralis”, seppe sempre coniugare il suo assoluto rigore morale con una umanità pacata, un garbo discreto da signore d’altri tempi, e un’onestà intellettuale che sempre gli venne riconosciuta, anche dagli acerrimi nemici (ah, che merce rara nelle italiche vicende d’ogni tempo!).
Quel volto severo, incorniciato da due folti mustacchi, quel fisico imponente eppur dotato di una naturale, austera eleganza, tradivano, sotto il vasto occipite, uno sguardo vivo e acuto, sempre intento a scrutare un orizzonte ideale. Laddove i più non scorgevano che rovine e declino morale, il Conte di Ghemme distingueva i contorni della sua Pospa, gioiello di efficienza che si ergeva dalle macerie prodotte da decenni di governanti lassisti e maramaldi.
La Pospa, ovvero l’utopia della produttività totale. Dagli scritti che egli ci ha lasciato e che sono certo Lei abbia saputo apprezzare, traspare tutta la tragedia di un uomo intieramente votato al suo sogno, al punto di sacrificare sull’altare dell’opera sua gli affetti familiari. Il progetto di una vita, che tante illusioni seppe suscitare nella più lungimirante gioventù accademica dell’epoca, era purtroppo destinato al più misero dei fallimenti, di fronte alla protervia du un mondo industriale arretrato e pusillanime, incapace di valorizzare le Patrie eccellenze, impermeabile a qualsivoglia innovazione.
L’infamia del fallimento riuscì infine a piegare quell’uomo indomito: il Conte di Ghemme perse il ben dell’intelletto; terminò la sua esistenza solo e abbandonato, in un ricovero per mentecatti, continuando fino all’ultimo a vedere Pospe dove non erano che rovine e declino morale.
A dieci lustri dalla sua scomparsa ritengo doveroso rendere omaggio alla sua memoria.
Per questo, gentile Bartleby, se non è chiedere troppo, vorrei che anche Lei, da queste Sue colonne, spendesse qualcuna delle Sue illuminanti parole per questa figura tragica, epperò a suo modo eroica, d’Italiano.
Cordialmente Suo
Gentile utente anonimo,
il suo accorato ricordo del Conte di Ghemme, industriale dell’aceto, e delle sue Pospe mi ha commosso ed allo stesso tempo entusiasmato, La prego pertanto di svelare la sua identità ai miei ad agli altrui occhi, in modo da potere, tutti insieme rendere omaggio alle Pospe passate e a quelle future, con sempre rinnovato ardore ed indomito coraggio.
Arrivederci a presto.
p.s. anche se io un’idea sulla sua identità, mio caro anonimo ce l’avrei, mi sbaglio?
Esimio Dott. Bartleby
Il conte di Ghemme era uno stupido pazzo. Con i suoi modi brutali ed insensati mandò in rovina quella che per decenni era stata una delle aziende leader a livello europeo dell’aceto, la Pospa. Nel Lodigiano ancora oggi alcuni anziani ricordano quell’uomo rude e scostante, il cui unico scopo era sparlare della Pospa Airoldi, oggi Pospa Pispola, situata a poche centinaia di metri dalla sua amata Pospa Ghemme. Ma le calunnie, scusatemi il termine anatomico, hanno le gambe corte. La pospa Ghemme fallì a causa di quel pazzoide, e la Pospa Airoldi ebbe campo libero per tutta la distribuzione del nord Italia. La storia, quella scritta sui libri di scuola, qui si ferma, ed asserisce che fu a questo punto che, fiaccato dai debiti e dalla solitudine, il vecchiaccio malefico rinfollì. Ma andate, prego, andate a Lodi, chiedete alla gente, ascoltate le loro storie, non abbiate paura della verità. Essi vi diranno che il conte era pazzo da molto tempo. Non parlerò qui delle sue 3 mogli, tutte decedute in circostanze MISTERIOSE!, nè voglio qui sindacare sugli spietati metodi di contraccezione operati sulle sue dipendenti. Quanto ai suoi discorsi, non vedo cosa si possa imparare da un uomo che decide deliberatamente e senza alcun motivo di eliminare le vocali.
Cordialmente,
Filiberto Ranghetti
eliminare le vocali! poffarbacco! e senza un motivo del resto! che sono già in evidente condizione di inferiotità nei confronti delle consonanti, tanto più numerose, un vero oltraggio.
un vero dilemma mi attanaglia a questo punto. come potrò scoprire la vera storia delle Pospe e delle nefandezze perpetrate dal conte di Ghemme?
egragio, non ha lei un blog dove potrebbe raccontarle e me e a tutti i lettori incuriositi?
Egregio Dottor Bartleby,
urgono alcune precisazioni. Avevo compilato all’uopo una tabella molto efficace e chiarificatrice, ma devo averla inavvertitamente gettata, o ingerita.
Cercherò di essere quanto più chiaro possibile.
Di sicuro non ho mai avuto il piacere di conoscerLa, a meno che Lei non abbia frequentato qualche istituto di detenzione negli ultimi 12 (dodici)anni; non vedo davvero quindi come possa avere un’idea di chi io sia.
Ma per questo non ha che da chiedere:Mi chiamo Romano Cincischietti.
Colgo l’occasione per giustificarmi della mancata firma nel mio contributo di alcuni giorni fa, dimenticanza dovuta all’eccitazione per un evento che di solito mi vede sconfitto e che in quell’occasione mi trovò impreparato vincitore, ossia il commento come si suol dire on-line.
Tanta fu lo stupore di sapermi piccolo mattone nella Sua fulgida rubrica, che l’orgoglio del momento mi spronò a pubblicare quanto scritto senza rileggere.
E lei, forsepotrei, che parla tanto per precisare: e che diamine, se la pigli con quelli della sua risma, che non m’abbasso. Potrei mentirle, dirle che avendo io usato le virgolette ho reso “lectio magistralis” il titolo del ciclo di discorsi del compianto Mazzoleni, che quindi posso tenere al singolare, ma non lo farò: il mio fu un abbaglio, certo figlio della passione che nutro per il nobile argomento. Mi scuso d’averla inavvertitamente infastidita. La cultura, mio squisito amico, nasce dal garbo, dal tatto, dalla tolleranza, non dalla presuzione dei signorini “so tutto”. Se sapesse quante primavere porto forse sarebbe più incline al rispetto che alla superiorità, piccolo sciagurato. Le farei ben vedere io di che pasta siam fatti noi, uomini d’un tempo. Ma “non ti curar di lor…”, che qui urgono chiarimenti.
Proprio lei, Dottor Bartleby, chiede a me se posseggo rubriche ove poter soddisfare la Sua curiosità?
Ma che diamine, qui si scherza forse? il conte di Ghemme merita più degli bruniti ricordi d’un anziano brontolone quale io sono, ed è per questo che mi sono rivolto a Lei, Dottor Bartleby, che sono sicuro sarà ben più informato di me sull’intiera faccenda.
Un’ultima cosa, essenziale: diffidate di quel satanasso del Ranghetti, egli ha l’unico scopo di ricoprire di sterco ciò che fu puro.
E tu, Ranghetti, scontriamoci in altri a noi più conosciuti lidi, ove sian più avvezzi al turpiloquio ed alla Pospa, o ti scotta ancora?
Un cordiale saluto,
Romano Cincischietti
Egregio Romano Cincischietti,
Ritorni la prego, ritorni spesso. Grazie alla sua preziosa testimonianza, un frammento della storia de nostro dolce paese resterà impressa nella memoria mia, dei miei figli et dei miei nipoti, glielo prometto solennemente. Che fausto giorno, che gioia incontrarla..
Ritorni, ritorni
Con rispetto
Crilice
Mi dispiace di averla offesa, caro signor Romano Cincischietti. Dato il suo anonimato l’avevo scambiata per un altro anonimo, autore di un commento poco simpatico, appena precedente il suo. Credevo quindi che il suo commento fosse solo una presa in giro. Così ho cercato un appiglio per prenderla in giro a mia volta. Di solito non do importanza alle questioni formali, proprio io che non so affatto tutto, ma poco o niente. Perciò spero vorrà accettare le mie scuse e dimenticare l’accaduto.
Questi blog sono pericolosi. Quanti equivoci a non guardarsi in faccia.
Addio o, se mai vorrà, a rivederci!